Stoker - La Recensione

La lingua inglese ed un cast composto da attori di fama internazionale non costringono "Stoker" a cambiar pelle. Park Chan-wook in fondo è sudcoreano e per la prima esperienza lontano dal suo paese (da cui si è distinto meritatamente per via della "Trilogia della Vendetta") non ha voglia di rinunciare allo stampo asiatico ma anzi vuole esportarlo insieme all'intero nucleo a cui appartiene, legandolo stretto alla sceneggiatura scritta sotto il falso nome di Ted Foulke dall'attore Wentworth Miller e ottenendo una pellicola dai continui cambi di carattere e di atmosfera.

Di legami si parla anche nella parabola della protagonista India - appena rimasta orfana di padre e costretta a vivere con una madre alla quale non è mai stata affezionata - legami di sangue, che vanno a congiungersi ai desideri e agli impulsi ereditari nascosti piuttosto che repressi. Dato che "Stoker" altro non fa che forzare la mano e trascinare in un viaggio difficile una personalità disturbata e confusa, convincendola a non essere spaventata e a non fuggire dalla propria natura, abbracciando con ricercata quiete quei stimoli che percepisce nel profondo e mandando anche in fumo, se necessario, i piani di chi - sapendo distinguere ancora la differenza tra bene e male - ha tentato nella vita di tenere a bada quel fuoco che sin troppo minacciava di ardere.

Chan-wook allora tinge il suo thriller con piccole macchie d’horror, alimentando il mistero puro con il volto, la fisicità e la compostezza britannica del personaggio laccatissimo e dall'aspetto poco rassicurante di Matthew Goode: lo zio ricomparso all'improvviso dopo la morte del fratello e morbosamente interessato a prendere contatti con la nipote che puntualmente si lascia sfuggire allo stesso modo di come lui ama fare quando si scava nel suo passato. Curando molto più l'estetica e la forma, e sciorinando soluzioni di trama col contagocce, "Stoker" preferisce così disturbare lo spettatore a livello visivo, con inquadrature scomposte e sequenze angoscianti, scelta registica da cui la pellicola fatica a trarre grossi benefici ma che gli consente di tener chiusa in gabbia più a lungo del previsto la rivelazione-chiave, liberandosene poi solamente nel momento anticipatorio al twist finale (non troppo sorprendente).

Succede quindi che per una buona e lunga dose di assunzione il lavoro di Chan-wook, non trova mai l'accordo giusto per andare a tempo, magari stonare è una scelta intenzionale ma il diritto di non essere compresa da parte nostra, oltre che lecito, è naturale. Come è lecito e naturale d'altronde che India tiri alla fine un colpo al cerchio e uno alla botte e termini la sua ricerca interiore difendendo sia gli insegnamenti protettivi del padre che il rispetto nei confronti di se stessa, imboccando inesorabilmente il tunnel a cui è sempre appartenuta e lasciandosi cullare in esso da una liberazione soave dal retrogusto crudele.

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