Holy Motors - La Recensione

In una sala cinematografica vediamo il pubblico assistere immobile e impassibile a una proiezione misteriosa. Nel frattempo, in una stanza d’albergo, un uomo scopre che una delle pareti che lo circondano contiene una porta segreta che, se attraversata, conduce esattamente nella galleria della sala dove è in corso quella proiezione. Infine, uno stacco, ci catapulta definitivamente nella limousine di Monsieur Oscar -  il mattatore assoluto della storia - lasciando il dubbio che sia lui o meno il protagonista di una pellicola che intanto prosegue a scorrere nel cinema (e davanti ai nostri occhi), senza dare alcun punto di riferimento sulle sue intenzioni.

Perché su una cosa possiamo stare sicuri: siamo finiti nella mente folle e anticonvenzionale di Leos Carax. Una mente in cui la realtà è supposizione e la fantasia padrona assoluta. Presto non avrà più importanza, allora, capire se Monsieur Oscar sia parte o meno di quel film, ma saranno altre domande a sorgere spontanee; e cominceremo ad essere frastornati dal trasformismo di questo indecifrabile personaggio che si impadronisce della scena, continuando a cambiare aspetto e ruolo nella sua lunga, bianca limousine che lo accompagna ai numerosi appuntamenti rammentati dolcemente, e mano mano, dalla sua autista personale. Prende le sembianze di una pellicola episodica quindi “Holy Motors”, salvo sottolineare una sorta di continuità celata tutta dentro quel mezzo di trasporto che è molto più di un semplice motore dal rivestimento sfarzoso: poiché è l’unico habitat in cui Monsieur Oscar vive il suo effettivo Io in modo pieno e totale.
Spezzettato in piccoli frammenti il lavoro di Carax spiazza e intriga, quindi, affascinando lo spettatore coi repentini cambi di un fenomenale Denis Lavant, il quale che muta puntigliosamente carattere e aspetto, entrando in vite sempre diverse e impedendo così all'opera di andarsi a rifugiare in un genere determinato e pulito. Uomo d’affari, mendicante, attore alle prese col motion capture, mostro, padre di famiglia, fisarmonicista, sicario, vecchio morente e ancora e ancora. Non si ferma mai la girandola di impegni di quello che potrebbe essere etichettato come un attore in tempo reale, un mestiere senza respiro (e senza videocamere) che non lascia scampo a nessun intervallo e imprevisto.

Proprio per questo “Holy Motors” ha nella sua struttura pochissimi momenti in cui gli è accordato lasciarsi andare a dialoghi esplicativi. E, quando accade, questi sono necessari a fornire informazioni a noi spettatori in merito a uno spettacolo che potrebbe essere prettamente egocentrico, oppure portatore di qualche nebuloso messaggio. Un dubbio costantemente in bilico, che comincia a schiarirsi, tuttavia, quando nella limousine fa capolino come un fantasma un’irriconoscibile Michel Piccoli, che - con un discorso piuttosto avaro di parole - risalta il disagio di un mondo ormai tendente all'invisibilità e alla paranoia: parole che troveranno poi completamento in un finale sarcastico e dispettoso, volto a rimischiare nuovamente le carte.

Contenitore di moltissimi soggetti che avrebbero potuto trovare sviluppo anche singolarmente, dunque, l’insano progetto di Carax – per usare una delle (rare) migliori frasi espresse dal suo protagonista – tende a voler ricercare la bellezza del gesto, non solo ignorando, ma fregandosene altamente del gusto - spesso cattivo - del pubblico che (non) guarda.
Auspicando che così facendo possa liberare finalmente quel piacere originale assaporato all'inizio: quando bastava - appunto - la cattura di un bel gesto per sentirsi soddisfatti e in pace con sé stessi.

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