Hates: House at the End of the Street - La Recensione

Se c’è una cosa che andiamo cercando - e lo diciamo spesso - quando guardiamo all'horror, adesso è l’originalità. I remake ci fanno storcere la bocca (pur essendo in alcuni casi molto buoni), chi sperimenta viene guardato con diffidenza (pur portando spesso la freschezza che manca) e chi invece si accontenta di adagiarsi sullo stereotipo è bocciato all'istante.

Non si capisce allora da dove “Hates: House At The End of the Street” abbia trovato il coraggio per realizzarsi, non avendo dalla sua niente di nuovo da dire e marciando su tasselli del genere logorati dal tempo e da infiniti predecessori. Certo, andando a stringere potremmo dire che di horror non ci sia poi molto nella pellicola diretta da Mark Tonderai - tranne l’impostazione di base che però lascia spazio, senza opposizioni, al thriller e a un suo successivo sfondo psicologico - ma da qualunque prospettiva lo si guardi, questo lavoro, lascia solamente interdetti e perplessi.

Basata su un racconto breve di Jonathan Mostow la trama attacca immediatamente cartello con una madre e una figlia appena trasferitesi in una piccola cittadina, in fuga dai problemi lasciati a Chicago e alle prese con una nuova casa acquistata in affare perché frontale ad un’altra abbandonata dove quattro anni prima una ragazza mentalmente instabile ha fatto fuori in modo brutale i suoi genitori. Non serve chiaramente un genio per anticipare i risvolti di una preparazione che non è altro che miccia di un meccanismo pianificato a portare i nuovi arrivati al conflitto, sia col passato e sia con l’evento che ha indelebilmente macchiato il posto da dove adesso vorrebbero ricominciare.

La presenza della neo-premio-Oscar Jennifer Lawrence potrebbe fungere, per qualcuno magari, da ingannevole richiamo, sottovalutando l’importante dettaglio che questo film - temporalmente parlando - è stato girato, e distribuito in America, prima de “Il Lato Positivo” e perciò non affatto una continuazione artistica dell’attrice ma bensì scelta precedente. Tonderai vuole cavarsela ed ottenere esiti discreti pedinando uno schema consolidato e spremuto, quindi lascia seguire agli eventi un corso prevedibile e, per questo, da parte nostra anche anticipatorio: bastano appena venti minuti in realtà per indovinare che piega prenderà la pellicola e come andrà a chiudere ogni suo risvolto. Nemmeno il colpo di scena lasciato come ciliegina sulla torta spiazza più di tanto, perché anch'esso facilmente calcolabile tra le (limitate) ipotesi stilate, e discendente di un canovaccio saturo e stanco.

Emerge molto somigliante al recentissimo “Non Aprite Quella Porta 3D” questo “Hates: House At The End of the Street”, specie durante il suo primo blocco. In corso d’opera però ci si accorge che le questioni analizzate sicuramente non sono le stesse di quelle portate intelligentemente a galla dall'opera di John Luessenhop, che almeno sfruttava il franchise di un famoso titolo horror per andare ad esplorare i legami di sangue e la loro forza incatenante.

Tonderai invece da l’impressione di non avere ambizioni, non cerca alcun tipo di approccio stimolante e brucia in un lampo quello - servito su un piatto d’argento - basato sul senso di colpa che lega sia la madre della protagonista e sia il fratello dell’assassina esecutrice della famosa strage. Impossibile pertanto trovare un appiglio che consenta al film di non cadere nel dimenticatoio, nessuno sforzo sarebbe in grado di trovare qualcosa laddove non c’è praticamente nulla. Al massimo si potrebbe salvare la voce soave di una Jennifer Lawrence piacevole cantante, ma proprio al massimo, ecco.

Trailer:

Commenti

  1. purtroppo un film pessimo.
    per la presenza di jennifer lawrence, e solo per quella, resta comunque guardabile.
    la voce quando canta comunque ho scoperto che non è la sua, ma l'hanno sostituita con quella di una vera cantante...

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  2. no, bruttissimo. sapere ciò è un colpo basso!

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